La scoperta: i buchi neri non sono strutture stabili nel tempo. Cosa li fa mutare?
Grazie alle osservazioni effettuate dal telescopio Hubble, nel corso degli ultimi 15 anni circa numerosi buchi neri hanno subito importanti modifiche. Un team di ricercatori ha trovato la spiegazione.
Nella costellazione della Fornace, una delle 88 costellazioni moderne visibile dall’emisfero australe c’è una piccola regione di spazio chiamata “campo ultra profondo di Hubble” (in inglese “Hubble Ultra Deep Field”, HUDF) in onore proprio del telescopio spaziale Hubble che ce ne ha fornito delle immagini con una risoluzione incredibile.
La prima immagine di questa piccola regione è stata composta grazie ai dati raccolti da Hubble nel periodo da settembre 2003 a gennaio 2004 ed è l’immagine più profonda dell’universo mai raccolta nello spettro della luce visibile.
Questa rappresenta una sorta di “fotografia” del passato, che ci permette di guardare indietro nel tempo per 13 miliardi di anni.
Successivamente poi gli occhi del telescopio si sono rivolti nuovamente in quella direzione raccogliendo immagini anche ad altre lunghezze d’onda.
In particolare nel corso di 3 diversi anni, nel 2009, nel 2012 e nel 2023, la fotocamera Wide Field Camera 3 (WFC3) a bordo di Hubble ha ottenuto delle immagini nel vicino infrarosso, scoprendo circa una settantina di sorgenti con importanti variazioni della brillantezza nel corso dei diversi anni.
Partendo proprio da queste osservazioni un gruppo di ricercatori ha focalizzato la propria attenzione su soli tre oggetti in questa piccola regione di spazio. Questi si ritiene siano dei possibili buchi neri in fase di accrescimento, osservati però quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni.
Come mai questi oggetti hanno una brillantezza variabile?
Secondo gli scienziati la luminosità di questi buchi neri cambierebbe in base alle variazioni nel tasso di accrescimento di materiale che precipita all’interno del buco nero. Sappiamo infatti che quando del materiale cade in un buco nero questo si riscalda ed emette radiazione.
Tuttavia la quantità di materia che viene inghiottita dal buco nero non è costante, varia nel corso della sua esistenza, e questo porta all’alternanza di fasi più luminose e fasi meno luminose.
Questo innovativo studio è stato pubblicato di recente nella rivista The Astrophysical Journal Letters e rivela ulteriori novità.
Infatti grazie a questa tecnica sembrerebbero esserci più buchi neri rispetto a quanti se ne fossero osservati con altre metodologie. Questa scoperta ha permesso di sviluppare una precisa teoria riguardo la formazione di buchi neri supermassicci avvenuta meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Secondo gli autori di questo lavoro i primi buchi neri hanno avuto origine dal collasso di stelle antichissime, estremamente massicce e costituite sola da idrogeno e elio: le stelle di popolazione III, astri antichissimi al momento solo teorizzati e mai effettivamente osservati direttamente.
Lo studio evidenzia una realtà diversa
Ovviamente questo è solo un primo lavoro, al momento con molte incertezze e molti punti interrogativi, ma grazie all’incredibile longevità del telescopio spaziale Hubble, lanciato il 24 aprile del 1990 e in attività dal 1993, non mancheranno ulteriori studi volti a chiarire ogni dubbio.
Questo ovviamente in attesa del contributo del telescopio spaziale James Webb, ancora troppo giovane per poterci fornire una serie temporale di immagini ai livelli del suo predecessore (il lancio del James Webb è infatti avvenuto solo di recente, il 25 dicembre 2021).